Condensare e sviscerare la pluridecennale carriera artistica di Willie Nelson non è certamente impresa agevole, soprattutto quando si tratta di una delle ultime grandi icone della Musica Americana, personaggio il cui passato ha segnato profondamente l’ultimo mezzo secolo ma il cui presente continua a riservare sempre nuove sorprese, allontanando il pericolo di raffigurare e perpetuare clichè e luoghi comuni. Willie Nelson ha saputo porsi al tempo stesso come geniale autore e straordinario interprete attraverso tempi e luoghi che lo hanno visto ‘outlaw’ e musicista ‘mainstream’ pur, inevitabilmente, avendo vissuto periodi di stasi e di riflessione. Si è saputo reinventare via via country man e crooner tra pop e soul/jazz, duettando anche talvolta in maniera improbabile (e criticata da certa stampa), mostrando un’intelligenza e un ‘savoir faire’ che ne ha sottolineato un inalterato e profondo amore per la Musica, a tutto campo. In questo spazio non ci proponiamo di elencare pedissequamente tutto il suo percorso, per questo ci sono tantissime pubblicazioni, sia cartacee che ‘on line’, ma di concentrarci sui momenti per noi più significativi di un maestro e di un sicuro riferimento per coloro che hanno fatto musica legata alle radici del suono americano. Willie Hugh Nelson nasce ad Abbott, Texas nell’aprile del 1933 e subito cresce ascoltando country music e tradizioni mitteleuropee (principalmente da Germania e Boemia dalle quali provengono molti immigrati nel Texas centrale) e nei primi anni si barcamena tra svariati lavori (venditore di libri, disc jockey e insegnante). Un anno fondamentale per la sua carriera è il 1959, anno in cui decide di trasferirsi a Nashville dove l’incontro con Ray Price gli apre le porte del ‘music business’, dapprima come bassista nella sua band e poi come autore. E’ proprio a Music City che Willie Nelson inizia ad esibirsi con una propria band, The Record Men, e si fa conoscere come compositore mietendo grandi successi ma anche qualche perplessità sul non seguire con fedeltà i canoni sonori in voga all’epoca. Brani come “Night Life” ripresa da Ray Price, “Crazy” interpretata magistralmente da Patsy Cline, “Hello Walls” classico del repertorio di Faron Young e “Funny How Time Slips Away” portata al successo da Billy Walker sono solo alcuni esempi della vena compositiva di un giovane ma già maturo Nelson, canzoni che lo portano all’attenzione di appassionati ed addetti ai lavori.
Nonostante questi grandi classici, nel corso degli anni sessanta, Willie Nelson iniza ad essere insofferente nei confronti del cosiddetto ‘Nashville sound’ e dei suoi arrangiamenti ridondanti e talvolta decisamente kitsch e, complice un successo commerciale che non gli arride più come all’inizio, decide di ritirarsi nel nativo Texas. Ben presto però l’atmosfera vivace, dinamica ed esuberante che si respirava ad Austin con l’avvicinarsi di un pubblico giovane ed abituato al rock verso i suoni tradizionali country, lo porta a riprendere la voglia di comporre e suonare. La sua nuova immagine è legata al rock e al folk, oltre naturalmente ad una country music più ruvida e genuinamente honky tonk e Willie si guadagna un posto di rilievo per quanto riguarda la nascente scena ‘outlaw’. Nel frattempo la Atlantic nota le potenzialità del nuovo corso di Willie Nelson e lo mette sotto contratto, cominciando così un periodo tra i più felici e propositivi della sua vita musicale. Nel 1973 esce “Shotgun Willie” e nello stesso anno torna nei primi posti delle classifiche country grazie alla cover di “Stay All Night (Stay A Little Longer)” di Bob Wills. Due anni dopo c’è il passaggio alla Columbia e l’uscita di una serie di capolavori, ancora oggi imprescindibili per chi vuole conoscere l’artista: lo strepitoso concept album “The Red Headed Stranger”, il classico “Wanted: The Outlaws!” (pubblicato dalla RCA) in cui oltre al nostro appaiono canzoni di Waylon Jennings, Jessi Colter e Tompall Glaser, il disco inciso con l’altra grand figura del movimento ‘outlaw’ Waylon Jennings “Waylon & Willie” sono album che consacrano una fama che travalica i generi e gli fa scalare sia le classifiche country che quelle rock. Gli anni ottanta sono gli anni delle collaborazioni: ormai Willie Nelson è una star ampiamente affermata e questi duetti e ‘cooperazioni’ non fanno che confermare il suo status. Si susseguono così un disco con Merle Haggard (“Pancho & Lefty”, 1983) e altri due con Waylon Jennings (“Waylon & Willie II” del 1982 e “Take It To The Limit” del 1983), mentre a metà decennio è il momento diun supergruppo da urlo con l’ormai inseparabile Waylon Jennings, Johnny Cash e Kris Kristofferson autori di un paio di eccellenti album. Seguono alcuni anni in cui la fama cala nei confronti del pubblico giovane e legato alla country music, anni che vedono la nascita (o rinascita) del movimento ‘new country’ che porta all’attenzione degli appassionati nomi di grande rilievo come Alan Jackson, Dwight Yoakam, Garth Brooks, Randy Travis e molti altri che, in maniera diversa ma ugualmente fresca e coinvolgente, riportano in alto i suoni della tradizione country. Il colpo di coda avviene nel 1993 quando Willie Nelson si affida intelligentemente ad un produttore ‘alternativo’ e decisamente nuovo come Don Was che gli confeziona “Across The Borderline”, a mio parere uno dei più bei dischi di Willie Nelson, splendidamente intepretato con una convinzione e una intensità che da anni non si rilevava. Sempre nello stesso anni Willie viene inserito nella Country Music Hall Of Fame e decide di perseguire la propria carriera attraverso una serie di ‘sperimentazioni’ che in molti casi giovano alla sua carriera: la produzione di un altro geniale produttore come Daniel Lanois, certamente distante dalle sonorità a cui siamo abituati quando si parla di Willie Nelson (“Teatro”, 1998), l’incisione di un disco strumentale (“Night And Day”, 1999), il ritorno alle radici old-time country con “The Rainbow Connection” nel 2001. E’ proprio in questi anni che possiamo apprezzare la caleidoscopica e multiforme personalità di Willie Nelson, la sua perspicacia nel perseguire nuove strade tra passato e presente, dalla riunione con l’indimenticato Ray Price nel 2003 con “Run That By Me One More Time” al sorprendente avvicinamento ai suoni reggae di “Countryman” del 2005.Quando si parla di Willie Nelson le sorprese non finiscono mai e nell’ultimo decennio escono un gustoso tributo al nativo Texas in “You Don’t Know Me: The Songs Of Cindy Walker” che celebra uno dei segreti meglio custoditi del Lone Star State, la collaborazione con Ryan Adams e la sua band i Cardinals in “Songbird”, quella lungamente attesa con gli Asleep At The Wheel, altro grande atto d’amore nei confronti del suo Stato nativo, l’inarrestabile fascino dei duetti di “Lost Highway”, i due fantastici lavori concepiti con la band del jazzista Wynton Marsalis (“Two Men With The Blues” e “Here We Go Again: Celebrating The Genius Of Ray Charles”), tutto ha concorso a renderlo ancora più aperto ad ogni tipo di musica all’interno dell’amplissimo ‘songbook’ americano. Oggi, ad ottantadue anni suonati, dopo infinite session e concerti non sembra minimamente deciso a lasciare lo scettro di leggenda della musica americana, sempre attento a lavorare in maniera intelligente e libera da ogni vincolo, che si tratti di riannodare i fili con il passato o di provare nuove esperienze. “Django & Jimmie”, l’ultimo disco in ordine di tempo, è un altro capolavoro; il nuovo capitolo della lunga amicizia con Merle Haggard lo ha corroborato rinnovando entusiasmi per la verità mai sopiti, un altro esempio di una vita unica e fantastica.(Remo Ricaldone)