Californiano nato nella parte est di Los Angeles e formatosi più a nord nella Bay Area di San Francisco durante gli anni sessanta, Michael Menager è un musicista con un grande amore per la letteratura (i poeti della Beat Generation sono stati fondamentali punti di riferimento, con John Donne e Shakespeare) che ha saputo mettere a disposizione di una vena di assoluto valore che musicalmente paga tributo al country blues e al folk. Bob Dylan, John Prine e Townes Van Zandt, assieme a Mississippi John Hurt e al Reverendo Gary Davis ne hanno segnato una crescita che non lo ha portato ad una carriera ricca di affermazioni commerciali ma la qualità ne ha certamente giovato, con soli due album incisi a cominciare dal 2014 (“Clean Exit”, con un secondo pubblicato due anni dopo, nel 2016 e intitolato “Not The Express”) e un terzo mandato alle stampe in questi mesi, “Line In The Water”. Un terzo lavoro che ha visto Michael Menager affidarsi alla produzione di un altro ottimo musicista, l’australiano Heath Cullen che lo ha portato a registrare nel New South Wales fornendo le basi per un disco dal notevole fascino espressivo grazie ad una vena mai così ispirata, una voce matura, calda ed avvolgente che ci porta per mano nel profondo sud sulle note rigogliose e floride di luoghi memorabili. “What Is It Really That I Need?” apre questo ‘racconto’ con un giro di basso sinuoso accompagnato da un drumming modulato e ricco di sfumature, degno del miglior Jay Bellerose, in un brano che ha il fascino di un JJ Cale o di un Tony Joe White. “High Water Ahead” alza il tiro con uno dei momenti più belli e cristallini dell’album, in perfetto equilibrio tra country, folk e blues, con una slide acustica che non può che ricordare l’immenso Ry Cooder. Il disco fotografa, con attenzione ai dettagli,  l’America più autentica, scendendo nel Delta ed immergendosi nelle sue acque fangose con una “Baby, I Can Change” intrisa di umori blues, viaggiando poi nel tempo con “Flesh Against Bone”, canzone dalla melodia che rimanda ad un passato nostalgico e un po’ malinconico con la sua essenza acustica e folkie. La title-track è nuovamente interpretata in modo quasi parlato, alla maniera dell’ultimo Leonard Cohen con introspezione e bell’afflato poetico, seguito da un altro momento topico, “Autumn Flood On Devil’s Creek”, tra i punti più alti con la sua melodia azzeccata ed affascinante. “Fire Up The Mountain” è preziosa per stile legato a filo doppio con il più genuino country-folk, “Duck For Cover” la segue con la stessa ricerca di radici legate alla tradizione ‘old time’ con la presenza di un banjo a rimarcare tutto ciò, “Just This” è ancora acustica e accorata e si pone nel solco dei suoni del folk revival con grande gusto poetico. “Home” è significativamente posta alla fine della selezione, un ideale ‘ritorno a casa’ sulle note di un folk sfumato da country e leggere inflessioni quasi irlandesi, un saluto acustico e limpido per un disco che cresce esponenzialmente con gli ascolti e ci presenta un nome da apprezzare. (Remo Ricaldone)