Colori tenuti, pianure infinite, volti fieri, movimenti caotici dei corpi. I dipinti di George Catlin trasudano ancora dello spirito libero dei nativi d’America.
Catlin era nato a Wilkes-Barre, in Pennsylvania, il 26 luglio 1796. Da bambino lo appassionarono i racconti sugli indiani, soprattutto quelli raccontati da sua madre, che, con sua nonna, era stata catturata dagli irochesi durante un’incursione lungo la Susquehanna nel 1778. La donna era stata rilasciata illesa, ma i suoi vividi ricordi destarono l’immaginazione del figlio. Catlin non studiò regolarmente, seguì un apprendistato in uno studio legale, poi aprì il proprio ufficio a Luzerne, nel 1820. Abbandonò l’avvocatura nel giro di due anni e si dette anima e corpo alla pittura.
Partì con grande entusiasmo come semplice autodidatta, ma non tardò ad incamminarsi su una carriera di successo con riscontri che via via crescevano sempre più, portando le sue opere da New York a Filadelfia. Si affermò come ritrattista e come miniaturista. Tutto ciò però non gli bastava, la sua vena creativa gli diceva che doveva fare altro, tentare nuove strade pittoriche. Così quando gli si presentò l’occasione non esitò a coglierla. Una delegazione di indiani in viaggio per Washington, nel 1829 si fermò presso il museo di storia naturale del suo collega ritrattista Carles Willson Peale a Filadelfia e Catlin, impressionato dal portamento dignitoso di questi capi delle terre selvagge dell’estremo ovest, passò perentoriamente a raffigurarli.
Tutto gli stimolò anche fosche riflessioni sul destino dei nativi. Si rese conto con tristezza che stava assistendo alla fine di un’epoca, al tramonto di una cultura e di un popolo. Via via si convinse che era la sua missione ritrarre le nazioni indiane prima che morissero.
Con tutto il cuore dedito al compito che si era prefissato, concepì il piano di un viaggio nel west per produrre una storia pittorica delle tribù indiane del Nord America. Ciò si concretizzò nel 1830, quando partì per St. Louis e incontrò il noto esploratore William Clark, all’epoca sovrintendente agli affari indiani per le tribù occidentali. Clark lo accompagnò negli accampamenti indiani di St. Louis che divenne la base operativa di Catlin per cinque viaggi, fatti tra il 1830 e il 1836, visitando complessivamente cinquanta tribù. Poté così ritrarre gli iowa, gli estern sioux, i sac and fox e ancora i pawnee, i missouri e altre tribù delle praterie centro-settentrionali.
Intraprese il secondo viaggio nel 1832, a bordo del piroscafo Yellowstone della American Fur Company, con il gruppo di trapper di Pierre Chouteaur Jr. Viaggiò per circa duemila miglia lungo il fiume Missouri da St. Louis a Fort Union, sino alla foce dello Yellowstone. Qui sorgeva un forte dell’American Fur Company, luogo di scambi e affari coi nativi. Catlin ricordò a lungo il suo arrivo: “Il nostro avvicinamento ad esso sotto il continuo rombo dei cannoni per mezz’ora e le stridule urla dei selvaggi mezzo spaventati che fiancheggiavano le rive, presentavano una scena dell’aspetto più emozionante e pittoresco…”. Vi restò per tre mesi, alloggiando in uno di bastioni del forte, sempre impegnato davanti al suo cavalletto, circondato da barattoli di pittura e tele per tratteggiare schizzi sui sioux, cheyenne, assiniboin e blackfoot, sui loro villaggi e sulle cacce. Non volle lasciarsi sfuggire nulla e con occhi attenti e mano rapida disegnò ad inchiostro persone e luoghi, “una schiera di spiriti selvaggi e incongrui – capi e sachem – guerrieri, coraggiosi e donne e bambini di diverse tribù …” e tutti finirono, successivamente, nei suoi dipinti. Una serie di incisioni finì invece nelle Letters and Notes on the Manners, Customs, and Conditions of the North American Indian, un’opera in due volumi che pubblicò a Londra nel 1841. Non mancarono poi raffigurazioni dell’incontaminato paesaggio dell’Alto Missouri. In un punto particolarmente pittoresco chiamato Big Bend, o Grand Detour, il Missouri formava un’enorme esse attraverso le scogliere rocciose. Catlin non mancò di visitare quel posto raggiungendolo in canoa.
Disegni del genere, ritratti, schizzi ad inchiostro e dipinti che mostrano i nativi con rispetto e per quel che erano, senza ricercarvi fascino, senza idealizzarli, diedero a Catlin il successo meritato.
L’artista non chiuse gli occhi davanti alla crudeltà e le pratiche più selvagge diffuse tra i nativi, per esempio descrisse in dettaglio l’O-kee-pa e le torture cerimoniali dei mandan. Tuttavia riteneva che l’indiano fosse sincero, gentile e cortese di natura e non l’ubriacone assassino che molti in quell’età ritenevano fosse. Scrisse: “Amo un popolo che mi ha sempre accolto col meglio che aveva. Che è onesto senza leggi, che non ha carceri e nessuna casa per i poveri – che non ha mai pronunciato invano il nome di Dio – che adora Dio senza una Bibbia, e credo che anche Dio lo ami”.
L’anno 1834 trovò Catlin a Fort Gibson nel Territorio indiano. Viaggiò coi mounted rangers sotto il comando del colonnello Henry Dodge, sfidando il caldo e la mancanza di cibo e di acqua e giungendo sino all’Oklahoma meridionale, incontrando caddo, comanche, kiowa e wichita. Ovunque andasse dipingeva gli indiani e il loro modo di vivere e si assicurava molti articoli realizzati da loro. Quando Catlin tornò a est nel 1838, raccolse i dipinti e numerosi manufatti nella sua Indian Gallery e iniziò a tenere conferenze pubbliche sugli indiani.
Nel 1844 pubblicò il suo North American Indian Portfolio, libro destinato a divenire una delle opere più importanti sugli indiani d’America pubblicate nel XIX secolo. Le illustrazioni contenute nel volume davano finalmente a tutti la possibilità di conoscere le genti e gli scenari contenuti nei resoconti della spedizione di Lewis e Clark. Il portfolio di Catlin presentava visioni colorate dei nativi americani, ma anche spunti assai critici. La sua litografia Assiniboine Chief Going to and Returning from Washington, per esempio, è una rappresentazione grafica dei suoi sentimenti. Un indiano vi appare con un berretto di piume, il vestito splendidamente lavorato e la coperta, ma si trasforma in una figura ridicola mentre, allontanandosi da Washington, assume i costumi occidentali con un vestito elegante e un cappello a cilindro, i guanti, un ombrello in una mano e un ventaglio nell’altra. Si tratta di un uomo realmente esistito di nome Wi-jun-jon, ovvero Testa d’uovo di piccione, un guerriero degli assinneboin, giovane, orgoglioso, bello, valoroso e aggraziato. Aveva combattuto molte battaglie e numerosi scalpi dei suoi nemici adornavano il suo vestito. Suo padre era il capo della sua tribù. Per queste ragioni Wi-jun-jon era stato scelto dal maggiore Sanford, l’agente indiano, per rappresentare la sua nazione nella delegazione che visitò la città di Washington nell’inverno 1832. Catlin scrisse: “Nell’offrire questa illustrazione al lettore, gli sto rappresentando una fedele riproduzione di un guerriero assinneboin, nel costume fluente e classico del suo paese, come appariva mentre si recava nella città di Washington, fedelmente in contrasto con la goffa immagine con cui è tornato alla sua tribù la stagione successiva, dopo un anno di insegnamento alla scuola di civiltà”.
La collezione fu esposta nelle più grandi città degli Stati Uniti, a Pittsburgh, a Cincinnati, a New York. Provò a vendere tutto al governo degli Stati Uniti, ma il Congresso non fu interessato, così portò la sua collezione in Europa. Fu a Londra, Bruxelles e Parigi. In Inghilterra ricevette l’encomio personale della regina Vittoria, ma alla fine dovette rinunciare alla sua collezione per molto poco a causa dei debiti accumulati. L’acquistò l’industriale Joseph Harrison di Filadelfia, ma Catlin continuò a dipingere per altri venti anni, producendo oltre 400 nuovi dipinti. Compì anche due lunghi viaggi in America Centrale e Meridionale e sulla costa della California, continuando sempre a dipingere indiani. Andò poi a vivere a Bruxelles, completò i suoi scritti e ingrandì la sua collezione di dipinti. Tornò a New York nel 1871 ma non trovò la fortuna che sperava e si accontentò di morire in povertà a Jersey City il 23 dicembre 1872.
Nel 1879 la vedova di Harrison donò allo Smithsonian American Art Museum la collezione del marito e così le opere di Catlin, ma altri 700 schizzi sono conservati presso il Museo Americano di Storia Naturale di New York. Altri pezzi si trovano anche nel Museo di archeologia e antropologia dell’Università della Pennsylvania e nella Biblioteca di Huntington a San Marino, in California. ( Angelo D’Ambra)