Entrambi parte della famiglia degli athabaska, apache e navajo si separarono inseguendo attitudini diverse. I primi bellicosi, cacciatori e nomadi, i secondi dediti all’agricoltura e alle attività pastorizie. Col tempo proprio i navajo, assieme ai zuni, divennero le principali vittime dell’irruenza apache, mentre altre tribù furono costrette ad allearsi con loro e alla fine vennero assorbite o annientate. Quando gli spagnoli li incontrarono, nell’Arizona orientale, presso il fiume Gila, conobbero subito la loro audacia. Sia il resoconto di Castaneda, cronista della spedizione di Coronado, che la relazione seicentesca di fra Alonso Benavides li descrissero come gente coraggiosa, aggressiva e abile in guerra. Nel giro di pochi anni divennero un nemico sanguinario e imbattibile, capace di incursioni devastanti, razzie, imboscate contro villaggi, missioni, avamposti militari. Anche nel Settecento furono enormi le difficoltà delle autorità della Nuova Spagna nel tenere a bada gli apache lungo il confine settentrionale, né le cose cambiarono con l’indipendenza del Messico. I guerrieri nativi si lanciavano in assalti violenti su Sonora e Chihuaha e, sfruttando grande capacità di movimento e sorprendente rapidità, attaccavano siti lasciati momentaneamente indifesi o difesi da presidi estenuati. Solo nel 1848 furono stanziati 18 reparti militare lungo il confine, ma ciò non servì a molto, anzi, alcuni presidi, come Tubac, furono addirittura abbandonati e Sonora visse un intenso spopolamento. Prosperarono i cacciatori di scalpi perché nella convinzione che non ci fosse altro modo per contrastare la minaccia apache.
Con l’undicesimo articolo del Trattato di Guadalupe Hidalgo il governo statunitense si impegnava formalmente ad impedire incursioni nel Messico di indiani che vivessero negli Usa e si obbligava pure a consegnare eventuali prigionieri messicani dei nativi, tuttavia fu impossibile adempiere a quanto promesso. Il territorio da tenere sotto controllo era vastissimo, impervio e arido e gli apache si spostavano continuamente tra monti e deserti inesplorati, resistendo alle temperature insopportabili. Nulla poté la fanteria e James S. Calhoun, il primo agente governativo per gli Indiani, già nell’ottobre 1849 scrisse che gli apache dovevano essere internati.
Il 2 maggio 1851, il commissario della Boundary Commission, John R. Barlett, si insediò alle Copper Mines di Santa Rita, nel cuore del territorio apache, per tracciare gli esatti confini col Messico. Sei settimane dopo si presentò a lui Mangas Coloradas, capo degli apache mimbre, accompagnato da un gruppo di guerrieri. L’indiano l’informò che aveva tenuto sotto controllo tutti i loro movimenti e chiese loro di andarsene. Avvenne, invece, uno sospettoso scambio di doni e promesse di coesistenza pacifica. Sin dai mesi seguenti si capì subito che certe parole non avevano avuto grande risultato. Si manifestarono diverse incomprensioni in merito al furto di bestiame ma soprattutto quando gli statunitensi esigevano il rilascio di prigionieri messicani. Ogni volta bisognava intavolare difficili e sfibranti trattative che rendevano evidente come la coesistenza fosse assai fragile. Dal 1855 gruppi di apache mescalero e apache mogollon mostrarono la disponibilità a coltivare la terra e a porsi sotto la protezione di Washington per fronteggiare la mancanza di cibo senza ricorrere a furti e aggressioni ai coloni bianchi. Gli apache coyotero di capo Chino Pena si piegarono dopo scontri con il colonnello R. C. Bonneville, nell’estate del 1857. Tutte queste tribù, sebbene riottose e sempre pronte ad impugnare il fucile, si adattarono ad un’esistenza da coltivatori, guadagnandosi i vizi e le malattie dei bianchi. Non i chiricahua.
Essi non avevano avuto fino ad allora grossi contatti con gli statunitensi, poi i convogli del servizio postale presero ad attraversare il loro territorio e allora fu necessario intervenire. Le cose, però, presero subito la piega sbagliata.
Incriminato del sequestro del figlio di un colono, Cochise fu invitato nella tenda del sottotenente George N. Bascom all’Apache Pass, tra i monti Dos Cabezas e Chiricahua. Ci andò ignaro dell’accusa e portò i suoi familiari, in spirito amichevole, ma quando l’interprete gli disse che sarebbe rimasto ostaggio dei soldati fin quando non avesse restituito il ragazzo rapito, estrasse il pugnale, tagliò la tenda e schizzò via sfuggendo al cordone di soldati che circondavano il campo. Sentendosi tradito, e preoccupato per la sorte dei suoi congiunti rimasti nelle mani di Bascom, iniziò una crudele guerra fatta di ruberie, scontri, assalti a convogli militari e prigionieri. Affiancato dagli abili guerrieri, riuscì persino a catturare il colono che l’accusava e propose di liberarlo solo in cambio del rilascio della sua gente tenuta reclusa. Ricevette un diniego e così ammazzò il colono. Quando seppe che pure i soldati avevano assassinato i prigionieri apache (suo fratello e due suoi nipoti), giurò che avrebbe sterminato i bianchi dell’intera Arizona. Si moltiplicarono gli attacchi ai ranch e le imboscate e ogni contromossa dell’esercito risultava inutile, pure gli inseguimenti fallivano. Gli apache si dividevano e si ritrovavano lontano dal nemico, conoscevano perfettamente sentieri, canyon e grotte, erano capaci di percorrere sino a centoventi chilometri a piedi al giorno e comunicare a lunga distanza coi segnali di fumo. Bascom provò a rimediare a quella carneficina rilasciando la moglie ed il figlio di Cochise, ma la vendetta ormai era iniziata.
Affiancati dai guerrieri di Mangas Coloradas, i chiricahua erano inafferrabili. Il risultato fu che, sul finire del 1861, l’unico luogo sicuro dell’Arizona era Tucson. Pure i movimenti delle truppe nordiste, nel contesto della Guerra Civile appena insorta, furono osteggiati e Cochise non si astenne dal guidare ripetuti attacchi. Lo scontro principale porta il nome di Battaglia di Apache Pass e vide la California Column del colonnello James H. Carleton sopraffatta da cinquecento apache guidati da Mangas Coloradas e Cochise. A corto di acqua, gli unionisti volevano raggiungere le sorgenti di Apache Pass ma gli indiani gli giocarono un’imboscata e tennero le posizioni anche sotto il fuoco degli obici, fino a notte. Solo allora Carleton potè accedere all’acqua.
Questo atteggiamento bellicoso di Cochise si inasprì ulteriormente quando, nel gennaio del 1863, con un riprovevole inganno, Mangas Coloradas fu indotto a parlamentare e poi invece giustiziato. Con in mano una bandiera di pace, il capo indiano aveva incontrato Ed Shirland, capitano del 1° cavalleria. Aveva invitato i quindici guerrieri che lo accompagnavano a tornar indietro perché sarebbe rimasto nell’accampamento due giorni. In realtà, appena la sua scorta scomparve all’orizzonte, Mangas Coloradas fu bloccato, legato e condotto prigioniero a Forte McLean, dove fu ammazzato senza alcun processo. L’indiano fu decapitato e la testa venne inviata allo Smithsonian Institute destando orrore nelle comunità native che attribuivano ai decapitati l’impossibilità di percorrere le praterie eterne. Cochise divenne furibondo. Lievitò il numero delle depredazioni, crebbero i morti e i rapiti tra i coloni, si moltiplicarono le storie di torture e violenze. La costante minaccia apache fece piombare i civili nel terrore. I guerrieri indiani erano i signori dei deserti settentrionali di Sonora e Chihuahua, del sud-est dell’Arizona e del sud-ovest del New Mexico fino alla Sierra Madre del Messico. Colpivano con attacchi fulminanti e si dileguavano come fantasmi. La guerra infervorò per dodici anni, poi Cochise visitò i suoi familiari a Cañada Alamosa, dove gli apache convivevano coi bianchi assicurando loro bestiame rubato in cambio di whisky, munizioni e altri generi di prima necessità. Fu lì che capì che vincere era impossibile perché il nemico era meglio armato e il suo popolo non poteva sopportare una guerra infinita. Era necessario convenire alla pace per la sopravvivenza dei chiricahua e ne parlò a William Arny, agente indiano per il New Mexico.
Nell’estate del 1872, il presidente Ulysses S. Grant inviò a trattare con Cochise il generale Oliver O. Howard. Questi raggiunse il capo indiano nelle Dragoon Mountains, accompagnato dal suo aiutante, il tenente Joseph A. Sladen, e dallo scout Thomas J. Jeffords, ex sovrintendente dei corrieri postali lungo la tratta Tucson-Socorro che s’era guadagnato l’amicizia dei chiricahua. Cochise fece radunare donne e bambini dove potevano immediatamente essere portati in salvo nel caso in cui i bianchi l’avessero ancora ingannato. Durante le trattative chiarì che non voleva riserve. Chiese che al suo popolo fosse permesso di rimanere sulle montagne e che proprio Jeffords fosse nominato agente indiano. Queste richieste furono accolte e le incursioni indiane finalmente cessarono. “D’ora in poi l’uomo bianco e l’indiano devono bere la stessa acqua, mangiare lo stesso pane e stare in pace”, furono le ultime di Cochise in quella giornata.
Il grande capo, però, non ebbe il privilegio di godersi a lungo la sua faticosa conquista.
Su quelle stesse montagne l’8 giugno 1874, Cochise, convinto che una strega gli avesse procurato uno strano malore allo stomaco, esalò il suo ultimo respiro. Aveva forse cinquant’anni. Vestito coi suoi abiti più belli, dipinto coi colori di guerra e con addosso il copricapo di penne, fu avvolto in una coperta di lana. Il cadavere fu calato in una profonda fenditura, con le armi, il suo pony e il suo cane, probabilmente nel punto ora noto come Cochise Stronghold. L’anno dopo Washington s’era già scordato di lui. Jeffords fu rimosso e i chiricahua furono trasferiti nella Riserva di San Carlos. ( Angelo D’Ambra)